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(…) s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.    (A. Manzoni – I Promessi Sposi)

La terracotta, invece, nasconde una bellezza propria, che ben compensa la sua fragile consistenza. Frutto del lavoro di mani sapienti e della paziente attesa davanti ai forni, nei quali assume consistenza e forme definitive, il vasellame di terracotta trova in cucina un’ottima espressione d’uso.

Ronco Biellese, piccolo comune nella provincia di Biella, ospita un piccolo museo dedicato alla terracotta, che raccoglie la storia dell’antica arte di fare stoviglie e utensili da cucina unendo acqua e argilla, da cuocere poi nei grandi forni.

Le terrecotte di Ronco, chiamate bielline, sono particolarmente preziose per l’elevata qualità dell’argilla rossa, ricavata proprio dalla collina sul quale il piccolo paese è situato, legame profondo dell’uomo con il territorio in cui vive.

Diversamente dai metalli, che rapidamente assorbono calore e che altrettanto rapidamente lo disperdono, la terracotta si scalda lentamente e poco per volta cede il calore assorbito ai cibi che in questo modo mantengono sostanza e morbidezza. Il coccio, inoltre, è poroso e assorbe gli umori e i sapori delle diverse preparazioni, che ridistribuisce poi nelle cotture successive, in un arcobaleno di gusti e sapori. 

Cuocere i cibi nel coccio è una delle basi della cucina del Mediterraneo. Un lungo e consistente fil rouge che si snoda nella tradizione e nella cultura delle genti mediterranee. E’ innegabile che per lo sviluppo del commercio, il ruolo unificatore del bacino del Mediterraneo sia stato fondamentale, ma questo ruolo si è rivelato importante anche nella cucina: quelle sponde, così circostritte e definite, hanno favorito la fusione di gusti e di tradizioni. Elementi comuni, infatti, si riconoscono nelle diverse preparazioni e tanti nomi diversi, propri della cucina di ciascun paese del Mediterraneo, rappresentano a volte le medesime pietanze.

Alcuni alimenti che ritroviamo spesso sulle nostre tavole, come l’olio, i cereali, le spezie, l’aglio, la cipolla, l’aceto o il limone, ricorrono nei piatti del Mediterraneo e hanno trovato nella cottura in terracotta un denominatore comune, dal Marocco alla Turchia.

Materiale di poco costo, nasce da argilla e acqua, in una forma grezza, ma se utilizzato come piatto da portata, viene decorato aristicamente. E’ presente un pò ovunque: il piatto tradizionale marocchino prende il nome dalla tajine, la caratteristica pentola con coperchio a cono, che una volta veniva addirittura portata nell’hammam per la cottura, sulle braci della caldaia; in Libia, la sherba, uno stufato di carne d’agnello, pomodoro, spezie ed orzo, con molto succo di limione e menta, cotto a lungo nelle pentole di coccio; in Algeria, l’agnello sotto sale, che viene marinato e salato per circa due mesi in un recipiente di terracotta e poi reidratato e preparato secondo il gusto locale; in Turchia il testi kebab, piatto di carne e manzo cotto per 12 ore in un coccio sigillato, in modo che gli aromi non si disperdano; in Italia, nelle tantissime e gustose preparazioni: dall’acquacotta toscana, al caciucco, alla trippa romana, alle semplici zuppe

Anche il vino ha il suo Maestro del coccio. Si chiama Josko Gravner, uno dei più grandi produttori italiani di vino. Sulle colline di Oslavia, nella splendida provincia di Gorizia, Gravner si ispira all’antica tradizione georgiana di vinificare in anfore di terracotta interrate. I Romani usavano questo metodo per fare il vino, con risultati comunque non eccellenti, tanto che erano soliti addolcirlo con il garum, un liquido denso a base di pesce macerato e miele. Josko Gravner no, fa un vino eccellente, ottenuto da uve Ribolla, uno dei due vitigni più rappresentativi delle colline del Collio. Le uve vengono macerate, fermentate e affinate in anfore di differenti misure, provenienti dalla Georgia. Bassa produzione (20mila bottiglie/aa) in 14 ettari di vigneti. Lo dice: “Potrei produrre di più, ma non mi interessa.” Dei 300 additivi disponibili per la vinificazione e consentiti dalla legge, nelle sue cantine ne usa uno solo: lo zolfo, come facevano i Romani. Vino naturale, direbbero alcuni. Vino, dice Josko Gravner. Lui sa farlo soltanto così e lo ha chiamato Anfora.