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(di Simone Perotti)

Larnaka, 25 settembre 2016, a bordo di Mediterranea.

Christina e Nicholaos, rappresentanti del Famagusta Ecocity Project (andatelo a vedere sul web, vale la pena), hanno le facce da giovani speranzosi. La prima notizia di questa nostra esplorazione di Cipro è dunque che dopo 42 anni di orrenda contrapposizione, guerra, muri, morti, possono nascere due giovani così. E questa è un’ottima notizia.

Rappresentano, insieme a Vasia Markides, la fondatrice, un progetto per portare a soluzione l’annosa questione della Ghost Town, la città fantasma, 6 km quadrati di Famagosta chiusi col filo spinato, inaccessibili, dal 1974, rimasti cristallizzati con le auto dell’epoca ancora parcheggiate, le tazzine di caffè sul tavolo degli appartamenti, le finestre socchiuse e ormai sfondate dal vento, gli abiti sulle grucce nei negozi di abbigliamento. Da quel giorno, questo luogo è un non luogo.

Chiedo loro di Cipro, di Famagosta, dei motivi per cui quella zona è stata chiusa e resa inaccessibile a invasori e invasi, come per escluderla dal mondo. “Volevano probabilmente farne baratto con qualcosa, scambiarla con altro, ma da allora non è avvenuto nulla”. Obietto che uno scrittore di noir sarebbe legittimato a supporre che vi sia qualcosa sotto, qualche segreto, visto che dopo qualche anno si rese subito evidente l’inutilità di quel tentativo. Nicholaos pensa che non ci sia nulla di occulto, Christina sì. Certo, dopo qualche anno, vista la natura dei rapporti tra le parti, fu subito evidente che quella parte di città chiusa, uccisa, non sarebbe servita a nulla, e tanto sarebbe valso radere al suolo tutto e costruire una città nuova, o abitarla ristrutturandola. Dunque perché è stata resa intoccabile e inviolabile fino ad oggi?

“Vi occorrerebbe un testimonial, qualcuno che parli di Cipro”. Il consiglio viene da me, e spero di non aver detto una banalità. Mi è venuto spontaneo quando abbiamo misurato insieme ciò che il mondo sa di Cipro. “Non se ne parla. Nessuno sa nulla,”dice Christina “quando sono andata a studiare negli USA nessuno sapeva niente della mia patria divisa”. Anche Nicholaos conferma: “A Londra ho conosciuto i primi turchi ciprioti della mia vita. Studenti come me. Persone splendide. Nessuno poteva credere che in patria siamo messi così…”.

L’ultimo muro, Cipro. Venuto fuori come un fungo una notte del 1974, in cui la Turchia invase l’isola per difenderla, secondo quanto sostengono gli anatolici, da un imminente colpo di mano ai danni della minoranza turca. O invece a freddo, per meri motivi espansionistici, come assicurano i greci. “Che storia raccontate ai bambini da ambo le parti? Perpetuate ognuno la legge del giusto contro il nemico cattivo? Così non si potrà mai risolvere nulla!” Tutti condividono. “Dobbiamo stare molto attenti, raccontare in modo garbato ogni cosa ai ragazzi, altrimenti è un danno”. Penso, e dico a voce alta, che l’unica storia da raccontare è la “Storia di un errore”, come è sempre la storia di una guerra. Anzi, di due errori, giacché la guerra, come l’amore, si fa sempre in due. Ecco, forse, la trama di un racconto di pace, che possa spingere a pensare diversamente le nuove generazioni.

“Siamo isolati, nessun politico europeo viene qui a vedere. Cipro non fa parte dell’agenda politica di nessun rappresentante europeo. O di qualsivoglia altro Paese. Siamo soli, ma forse,” dice con orgoglio Nicholaos “è un bene. Noi siamo ciprioti, abbiamo una nostra cultura, e risolveremo a modo nostro, con calma, con dignità i problemi della nostra isola”. Non condivido, da cittadino europeo e soprattutto del Mediterraneo, ma non insisto. La sua dignità e la sua ferma e garbata fiducia, sono troppo belle per sedarle con qualche buon senso.

Spieghiamo loro l’idea di un Mediterraneo unito, degli “Stati Uniti del Mediterraneo”. I ragazzi sono entusiasti. Sentono che quella direzione è identica a quella che stanno cercando loro. Quando fu pensata l’UE le cose stavano perfino peggio di come sta adesso il Mediterraneo. Forse una speranza c’è. Per Cipro. Per tutti noi.