Regate, imprese, avventure. Storie di uomini e della loro barca

  

03 Caracciolo1

In questa storia non c’è una barca a vela e nemmeno un uomo ma è una storia di mare e di vita, di una donna e di una nave e merita di essere raccontata qui.

 I protagonisti sono:

– una nave la “Francesco Caracciolo”,

– una donna napoletana Giulia Civita Franceschi,

– e … gli scugnizzi …  trasformati in “I Caracciolini”

 

La nave

Una corvetta mista ad elica, scafo in legno con carena rivestita in rame. Tre alberi a vele quadre progettata dall’Ispettore del Genio Navale Giuseppe Micheli. Varata con il nome di “Brillante” nel gennaio 1869, poco dopo il varo fu ribattezzata “Francesco Caracciolo”.

 

Dal 1875 al 1880 venne utilizzata per l’addestramento dei siluristi.

Nel 1881 venne destinata alla stazione del Pacifico meridionale in sostituzione dell’incrociatore Cristoforo Colombo.

Salpò da Pozzuoli il 30 novembre dello stesso anno ed effettuò la circumnavigazione della terra in un lungo viaggio irto di difficoltà e pericoli, percorrendo 35.374 miglia di cui 16.222 a vela, con compiti diplomatici, scientifici ed idrografici, spesso in zone di guerra o malsane, terminando la crociera a Venezia il 9 settembre 1884.

Nel 1893 venne portata in cantiere per importanti lavori.

Il 10 maggio 1894, modificati il piano velico e l’armamento, riprese servizio a La Spezia come Scuola Mozzi e Timonieri.

Nell’ottobre 1895 venne tolto il motore.

Nei dieci anni successivi continuò ad essere utilizzata come nave scuola veleggiando in lungo ed in largo nel Mediterraneo in crociere di addestramento.

Venne messa in disarmo l’11 dicembre 1904.

Fu poi il disegno di legge del ministro Pasquale Leonardi Cattolica ad assicurare poi alla città di Napoli la donazione della “Caracciolo” dal Ministero della Marina. Radiata nel 1907 dall’albo dei legni naviganti, la nave fu adibita ad Asilo; prima però ci fu l’approvazione della legge (n.724 del 13 luglio 1911)e successivamente l’istituzione del Consorzio pro Nave Asilo, con la relativa approvazione dello statuto (R.D. n.758 del 23 giugno 1912). La nave si inaugurò quasi due anni dopo nell’aprile del 1913. Alla realizzazione del progetto contribuirono personalità dell’epoca, Enrichetta Chiaraviglio Giolitti, Antonia Persico Nitti, David Levi-Morenos e altri ancora.

 

 

La d03 giulia civita franceschionna

Giulia Civita Franceschi aveva 43 anni quando, nell’agosto del 1913, salì a bordo della nave rimanendoci fino al 1928, anno in cui il fascismo, nel suo intento totalitario, volle inserire l’istituzione nell’Opera Nazionale Balilla, pregiudicando in maniera definitiva la singolare peculiarità dell’esperimento.

Nata a Napoli il 16 aprile del 1870, Giulia era figlia dello scultore Emilio Franceschi e di Marina Vannini, trasferitisi da Firenze nella città partenopea qualche anno prima. All’età di 19 anni sposò l’avvocato penalista Teodoro Civita dal quale ebbe un unico figlio, Emilio, suo prezioso collaboratore nella direzione della nave.

Il suo nome, quale educatrice della “Caracciolo”, fu suggerito da Enrichetta Chiaraviglio Giolitti, figlia del Presidente del Consiglio e da Antonia Nitti Persico, sua amica d’infanzia. Entrambe persuase che all’educazione dei fanciulli abbandonati dovesse essere preposta una donna. La vita trascorsa in quegli anni da Giulia Civita Franceschi sulla nave si fuse interamente a quella dei “caracciolini” ovvero gli scugnizzi imbarcati sulla nave Caracciolo.

 

 

 

03 i caraccioliniGli scugnizzi

Lo scugnizzo è il monello abbandonato, spesso dai genitori medesimi, fatti crudeli dal vizio o dalla miseria. Il vocabolo, appartenente al gergo più basso, fu colto molti anni fa da chi scrive sulla bocca medesima di quei monelli ed ha origine nel gioco detto a spaccastrommole, consistente nell’abilità di scognare, cioè sfaldare, scheggiare, con la punta della propria trottola, quella già girante del compagno”.

“… infanzia abbandonata …gli scugnizzi sono in balia del caso fino a quindici o sedici anni e, fatti adulti, non possono altro diventare – meno qualche rara eccezione – che gente ‘e mala vita.

Descrizione questa di Ferdinando Russo a cui dobbiamo non solo l’introduzione nella letteratura del termine scugnizzo ma anche le liriche più accorate su questa genia particolare di popolo infantile napoletano. I primi utilizzi registrati del termine risalgono al 1895, quando Ferdinando Russo scrisse: “In gergo questi ragazzi, che si avviano spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto, vengono denominati scugnizzi”.

 

 

 

Monia Valeriano tramite una mostra foto-documentaria racconta la straordinaria esperienza educativa della Nave Asilo “Caracciolo”, realizzata a Napoli tra il 1913 e il 1928, la cui direzione fu assegnata appunto a Giulia Civita Franceschi (1870-1957).

 

La nave degli scugnizzi

di Monia Valeriano

 

In quegli anni, più di 700 scugnizzi sottratti ai pericoli della strada trovarono una casa e una famiglia a bordo dell’antico veliero. La “Caracciolo” fu per loro essenzialmente una comunità, più che una scuola di addestramento ai mestieri marittimi: un microcosmo nel quale – secondo il “sistema Civita”, come sarebbe stato in seguito denominato – ogni fanciullo, assecondato nelle proprie attitudine, avrebbe potuto “migliorarsi individualmente e svilupparsi in modo armonico”. Come lei stessa rese noto, il suo metodo “nato da una personale intuizione del problema dell’infanzia napoletana abbandonata, andò perfezionandosi attraverso i successi conseguiti e le valse il plauso di insigni pedagogisti, Ferri, Claparède”.

Il sistema inglese dei training ships, antichi bastimenti adibiti a veri e propri edifici scolastici, trovò seguito in Italia grazie all’impegno dello storico Pasquale Villari e alla diffusione di un suo articolo del 1878, nel quale si sollecitava una riflessione attorno al modello inglese, utile esempio per il problema dell’infanzia derelitta della città di Napoli.

La Nave AsiloCaracciolo” non fu l’unico esempio, nei porti italiani già esistevano simili benemerite istituzioni: a Genova, fin dal 1888 si utilizzò l’Officina Navale “Garaventa” per accogliere giovani che avessero scontato pene carcerarie. Lo stesso si ebbe a Venezia, dove il direttore della Nave “Scilla”, David Levi-Morenos, e la moglie Elvira istituirono il convitto galleggiante allo scopo di formare gente di mare e di pesca. In virtù di quei principi fondamentali che hanno ispirato la scuola professionale marittima voluta dai due coniugi, gli orfani dei pescatori e dei marinai dell’Adriatico ottennero un riscatto sociale e con loro molti altri che, provenienti da varie parti d’Italia, reclamavano gli stessi bisogni.

Tra le tante attività a bordo della “Caracciolo”, la sezione di pesca (1916) conseguì un notevole successo gettando le basi per la realizzazione di una vera e propria “Scuola di Pesca”. Anche il Comune di Napoli prese parte a questa creazione con lo stanziamento di un contributo annuo che avrebbe garantito l’inserimento di cinquanta nuovi orfani.

Il 13 aprile 1921 maturate le esperienze di pesca, si costituì la SPEM (Scuola Pescatori e Marinaretti), alla quale due anni dopo lo Stato concesse la gestione dei Laghi Fusaro e Mare Morto, tra Bacoli e Capo Miseno.

Giulia Civita Franceschi, al contempo direttrice del nuovo Ente morale, pensò spesso alla realizzazione sul lago Fusaro di una casa per i piccoli pescatori, assieme ad un’opera per le scugnizze, alle quali estendere le pratiche collegate alla pesca. Convinta che nessuno si preoccupasse della sorte delle bambine abbandonate per le vie della città, nonché “esposte a tutte le forme orribili di criminalità per sé e più ancora per i figli che verranno da lei”.

Sempre nel 1921, la sua opera fu oggetto di studio da parte di una commissione giunta dal Giappone che, insieme al Ministro dell’Istruzione e a professori universitari, salì a bordo della nave per conoscere il sistema educativo adottato. Un anno dopo il Ministero della Pubblica Istruzione le conferì la prima medaglia d’oro al merito.

Nel 1923, ottenuta la concessione per lo sfruttamento dei laghi Fusaro e Mare Morto, la SPEM iniziò l’attività di pesca, anche se subito dopo lo Stato revocò l’autorizzazione per iniziativa di alcuni privati i quali ne reclamarono diritto di prelazione. Quando ripresero le attività della scuola, si scoprì che le acque dei laghi versavano in pessime condizioni per l’ostruzione dei canali di sbocco che ne impedivano il ricambio talché il fondo di pesca era quasi inesistente. Per l’Ente questi furono periodi di grandi incertezze economiche; un aiuto finanziario arrivò dal lascito della Contessa Anna De Iorio, vedova di Carlo van den Heuvel, la quale istituì un Asilo con analoghe finalità. Le due istituzioni, la SPEM e l’Asilo “Carlo van den Heuvel”, si unirono nel 1925 in un unico Ente morale che avviò oltre alle attività legate alla pesca nei laghi, la coltivazione di canna da zucchero, di piante medicinali e lino. Un anno dopo, il conferimento di una seconda medaglia d’oro non impedì l’inizio di un vero e proprio ostracismo, messo in atto dal regime fascista nei confronti di Giulia Civita Franceschi: per il suo ruolo sociale e più in generale per l’opera della Nave AsiloCaracciolo”. Nel 1928 fu rimossa del tutto dall’incarico e la nave inquadrata nell’Opera Nazionale Balilla.

Estromessa dall’asilo “galleggiante”, Giulia Civita Franceschi proseguì la direzione della SPEM fino al 1933, anno in cui le autorità fasciste si impossessarono delle strutture messe a disposizione dalla Marina. Costretta ad allontanarsi pure dai laghi e in attesa del completamento dei lavori di un edificio per una Scuola di agraria nei possedimenti terrieri lasciati dalla signora van den Heuvel, si trasferì con i giovani nelle campagne di Santa Maria a Vico dove avviò una scuola elementare, corsi di agraria per la bachicoltura, l’allevamento di conigli e altre attività legate ai lavori dei campi. Ciò nonostante anche questa sperimentazione si concluse con la rimozione forzata da parte del governo, che si impadronì dei beni dell’Asilo van den Heuvel e assegnò i ragazzi all’Albergo dei Poveri. Due anni dopo la nave fu distrutta, solo l’albero fu trasportato, come simbolo, a Sabaudia dove si costituì una Scuola di Marinaretti dalle caratteristiche chiaramente molto lontane dallo spirito originario che aveva animato tutta l’attività a bordo della Nave AsiloCaracciolo”.

Dopo la definitiva separazione dai “caracciolini”, con i quali aveva condiviso ben quindici anni della propria vita passata tra momenti di gioia e di speranza ma anche di profonda delusione per la mancata prosecuzione della sua opera, Giulia Civita Franceschi si dedicò alla famiglia e ai nipoti.

Spinta nuovamente dall’interesse per i problemi dell’infanzia abbandonata che continuavano a tormentare la città partenopea – accresciuti dalle conseguenze del recente conflitto mondiale – iniziò a partecipare, con ferma decisione e senso di grande responsabilità, al nascente movimento femminile dell’UDI (Unione delle Donne italiane). Strinse amicizia con Lieta Nicodemi, alla quale rilasciò interviste, e stabilì un sodalizio con Olga Arcuno, Direttrice responsabile di “Solidarietà”, con la quale condusse battaglie informative sul suo giornale per promuovere una istituzione simile alla Nave AsiloCaracciolo”. È significativa la sua partecipazione al Congresso delle Donne Napoletane del 1947 con la relazione inaugurale sul metodo educativo da lei adottato.

Morì nella sua casa di Posillipo nell’ottobre del 1957, all’età di 87 anni. Al suo funerale quattro dei suoi ragazzi – Buono, Di Iorio, Aubry e Ernani – hanno voluto portare a spalla la sua bara, molti altri l’hanno accompagnata all’estrema dimora; un istante prima di morire aveva detto al figlio “AEI se ne va” (AEI Sono le tre vocali dell’alfabeto con le quali i “carracciolini” si rivolgevano affettuosamente a Giulia, non di rado la chiamavano anche “mamma AEI “).

Nel numero di novembre del mensile “Solidarietà” Olga Arcuno riportò: “Giulia Civita Franceschi, spegnendosi nella notte dal 26 al 27 ottobre u.s., ha lasciato un’eredità moralmente impegnativa a coloro che hanno avuto il bene di avvicinarla – e di comprenderla nella sua autentica personalità – dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, allorché ella, uscendo dal silenzio e dall’isolamento – ai quali era stata costretta dai fascisti, responsabili della cessazione della sua eccezionale opera di educatrice – con energia rinnovata da un’immensa speranza prese contatto con quanti riteneva potessero coadiuvarla nella rinascita dell’iniziativa di redenzione umana, alla quale, negli anni migliori della sua vita, aveva integralmente dedicata se stessa”.

 

 

da vedere:

 

“La Storia di Giulia” di Marco Civita : La storia di Giulia

 

Mostra fotografica “La nave degli scugnizzi” a cura di Monia Valeriano

Cosenza – Convitto Nazionale B. Telesio – febb./mar 2013 : Mostra fotografica “La Nave degli Scugnizzi”