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(di Simone Perotti)

Sono arrivati e hanno subito iniziato a costruire…”. Yannis mi guarda, ha gli occhi un po’ umidi degli anziani, ma incastonati in un uomo atletico, elastico, minuto ma perfettamente in forma. Arrivando al bar di Lakki, costa sud dell’isola, ho perfino notato che si muove meglio di me, che invece da due giorni ho un potente mal di schiena.

“In pochissimo tempo gli italiani hanno bonificato questa rada, che era un lago, appunto, come dice il suo nome, era malsana, hanno piantato eucalipti perché assorbissero l’acqua, hanno fatto fondamenta con pali di legno, hanno costruito tutti questi caseggiati, in pieno stile razionalista fascista, poi l’arsenale, i bacini di carenaggio, i moli per le navi, il fronte del porto, i caseggiati per il comando e per i militari e le loro famiglie, almeno quelle degli ufficiali”.

A Leros, Mussolini voleva costruire la sua piccola Malta, la corazzata inaffondabile. Ci aveva provato anche in altri posti, come Pantelleria, ma senza grande successo. Però l’inventiva, la voglia, i criteri e le capacità fantasiose e pratiche degli italiani, qui si vedono tutte. Yannis aveva quindici anni, e lo presero subito a lavorare alle officine, dove è stato per tutto il tempo in cui gli italiani sono rimasti, imparando i mestieri più svariati, e osservando ogni cosa. Alla sua età, parla benissimo l’italiano ed è la memoria storica dell’isola.

“Italiani buoni e italiani cattivi, come per tutti. Ma la maggior parte erano gentili con noi. Qui non eravamo la Grecia, eravamo in Italia, all’epoca. Qui trasformarono tutto per farne un centro bellico di comando e servizi, una roccaforte militare della Marina”. La baia di Lakki è protetta, profonda, somiglia al Golfo di La Spezia. Un nascondiglio perfetto per navi e uomini, imprendibile, impenetrabile. “I tedeschi erano alleati, e i primi a bombardare furono gli inglesi. Volevano espugnare l’isola. Cinquantadue giorni di bombardamento ininterrotto. Una bomba centrò una baracca dove vivevano i musicisti. Sparsero mani, piedi, budella dovunque…” Yannis li conosceva bene. La sua tristezza trapela, mitigata dalla lontananza nel tempo. “Poi dopo il ’43 vennero i tedeschi, che presero tutto quello che trovarono, materiali, rifornimenti, riempirono i pontoni di quella roba e l’affondarono dove c’è un fondale di mille metri, per essere sicuri che non tornasse piùin mani italiane. Uno spreco enorme, era tutta roba di prim’ordine…”.

Yannis si ricorda i nomi di tutte le navi. E di quando il sommergibile Delfino salpò per distruggere una corazzata greca a Tinos. Il comandante aprì una busta ormai in mare. Gli ordini erano segreti, negati perfino agli ufficiali. “Avevo un amico italiano che era a bordo. Mi regalò una coccarda perché mi disse che non sapeva se sarebbe tornato. Grazie al cielo l’ho rivisto. Ma poi, con la fine della guerra sono andati via tutti”. E’ un po’malinconico quando ripensa a quegli anni, anche se si riprende quando mi racconta di aver imparato mille mestieri grazie agli italiani, e di aver poi insegnato i suoi mestieri ai ragazzi più giovani, e di ricevere ancora qualche visita dal nostro Paese, vecchietti che tornano in pellegrinaggio nell’isola dove, tutto sommato, guerra permettendo, erano stati felici. Gli chiedo se è mai andato in Italia, visto che è così legato a noi. Mi risponde un po’ mestamente di no. “In tanti mi hanno invitato, ma io non sono mai andato molto in giro. A Rodi, qualche volta, poi a Kos, dove sono nato, e anche al Pireo una volta. Ma per il resto sono sempre rimasto qui”.

Finita la guerra, su quest’isola la gente moriva di fame. Non avevano più niente, gli italiani non c’erano più. “Poi vivemmo tutti lavorando al manicomio, dove c’erano fino a duemilacinquecento pazienti, e più avanti i dissidenti del regime. Ha dato lavoro quel manicomio, l’unica cosa buona che ha fatto”.

Parliamo anche della crisi attuale della Grecia. Yannis, che quando ricordava i fatti tragici della guerra manteneva sempre un vago sorriso, si fa ora scuro in volto. Dice che non ce la fa con la sua pensione, con una moglie a letto che non lo riconosce più. Se non fosse per le figlie non saprebbe come fare. “Sono venuti gli italiani, e sono andati via. Poi gli inglesi, e sono andati via. Poi i tedeschi, e sono andati via. Ora sono venuti i greci, e dobbiamo fuggire noi…