(di Giuliana Rogano)

Sono come noi. Persone come noi. Hanno le nostre stesse speranze, gli stessi sogni, gli stessi desideri e gli stessi bisogni, ma i loro sono stati distrutti, infranti, annientati dalle bombe, insieme alle loro città e spesso ai loro amici e ai loro familiari. Sono rifugiati, non sono migranti.

Rifugiati perché “in cerca di un rifugio” dove sentirsi al sicuro e ricrearsi una vita, desiderosi, ovunque vadano, di raccontare il legame con le loro origini, la loro storia, e il loro Paese. Paese che non dimenticheranno mai e che in altre circostanze non avrebbero mai lasciato. Perché loro in quel Paese meraviglioso che era la Siria ci stavano bene, e ora lì c’è la guerra, quella vera.

Ciò che colpisce sono i loro sorrisi – nonostante tutto – la voglia di parlare, di raccontare come sono arrivati qui in Europa, del loro viaggio della speranza, di presentarsi con tutta la famiglia.

Qui in Grecia ormai sono salvi, la loro vita è salva, hanno oltrepassato il confine con la Turchia e hanno superato la notte in mare, su un gommone nero lungo circa 6 metri con oltre 40 persone a bordo, con le loro valigie, che spesso sono costretti a buttare a mare per evitare che il gommone si capovolga, e con i loro bambini, a volte neonati. Un viaggio che spesso si conclude a nuoto nella notte o all’alba, gli ultimi metri nel mare prima di essere recuperati dalla guardia costiera, prima di toccare finalmente terra. Un viaggio che a volte per alcuni, tanti, troppi, si conclude in mare. Con la morte.

Una terra amica quella greca, che li sta accogliendo e curando e che poi indica loro la strada per l’Europa del nord, lì dove tutti dicono di voler andare.

Ognuno ha una piccola borsetta a tenuta stagna legata al collo, con dentro documenti, soldi e cellulare, che se pure cade in mare e si bagna, quelli almeno sono protetti, perché il contenuto della borsetta è il segno della loro identità come persone. E lo sono ancora.

“Cosa posso fare io per questa gente?” – mi sono più volte chiesta. La risposta mi è arrivata proprio da loro. Quando incontravo i loro sguardi, mi sorridevano e mi dicevano “welcome!”. Loro, i rifugiati, davano il benvenuto a me, sì! E allora io rispondevo “welcome!” sorridendo. E a volte capitava che quando sorridevo e salutavo con la mano, un bambino rispondesse al mio saluto con la manina, sorridendo, e allora succedeva che i genitori mi chiedessero di avvicinarmi e giocare con il bimbo, e mentre io giocavo con lui, loro parlavano e mi raccontavano. E poi alla fine ci abbracciavamo. “Ecco cosa posso fare” – mi sono detta – “posso dargli il benvenuto, posso sorridere e abbracciarli, giocare con i loro bimbi. Posso ascoltare mentre mi raccontano la loro storia, e mi parlano della loro terra, della loro famiglia e del loro viaggio.” Cercano il contatto, l’accoglienza, i sorrisi, la gioia di vivere, perché sono vivi. Welcome, benvenuti, siete salvi, siete ancora vivi.

Ed è per questo che siamo andati nel centro di accoglienza di UNHCR a Leros. Per presentarci, per sorridere, per abbracciarli e per ascoltarli.

Appena siamo entrati in uno dei locali del centro, una famiglia ci ha chiamato e invitato a prendere il caffè con loro. Alaa, 23 anni, con la sua mamma, le sue sorelle – una delle quali con un bimbo di 28 giorni – suo zio e i suoi cugini, ci mostra il video sul cellulare, dove un aereo da guerra passa sopra la sua casa e bombarda la sua città, Kafra Nbl, nel governatorato di Idlib a 80 km da Aleppo, e ci racconta di come siano riusciti ad arrivare a Leros. Sono fuggiti fino al confine con la Turchia, hanno pagato 400 lire turche per passare la frontiera ed arrivare con il bus sulla costa. Qui hanno pagato 1000 dollari a testa il loro posto sul gommone. Suo zio era “il driver”, così ci dice, perché qui, da questa parte del Mediterraneo funziona così, non c’è lo scafista, il gommone viene affidato al gruppo e uno del gruppo si assume la responsabilità della sua conduzione. E poi ci racconta un po’ di sé, di quando studiava agraria e faceva la giornalista per la Rivoluzione.

Welcome, Alaa, and good luck!