Serre Almeria

 

(di Francesca Piro)

Non avevamo capito cosa fosse tutto quel bianco che ci compariva davanti ogni volta che aprivamo sul PC la carta satellitare dell’Andalusia, lì, proprio nell’area di Almeria dove stavamo dirigendo. Ci interessava studiare la rotta, verificare la meteo, non ci eravamo soffermati a guardare bene. Lo abbiamo capito quando siamo arrivati ad Aguadulce e siamo andati in giro per visitare Almeria e i dintorni. Le serre. Le serre agricole. E poi, quando all’alba abbiamo lasciato il porto e abbiamo messo la prua su Malaga. A dritta, nel buio sfilava la costa andalusa e con la prima luce, sullo sfondo roccioso e riarso della Sierra che si alza ripida dietro la piana, compariva un colore grigio traslucido, uniforme e cangiante, quasi si muovesse con il vento, lo stesso che spingeva le vele di Mediterranea. “Ma cos’è?” – ci siamo chiesti. Dopo poche miglia, quel grigio è arrivato a ridosso dell’acqua ed è sfumato nel bianco… “Sono le serre. Si vedono anche da qui”. E mentre la luce schiariva ancora e diventava giorno, il bianco s’è fatto più acceso e per ore e ore abbiamo visto un paesaggio apocalittico. Chilometri e chilometri di plastica.

Questa zona, storicamente depressa dal punto di vista economico per la scarsa piovosità, è diventata da ormai 35 anni uno dei territori più fertili d’Europa grazie all’agricoltura intensiva realizzata attraverso le serre. L’irrigazione, mancando l’acqua avviene con il sistema “goccia a goccia” e, per ridurre ulteriormente la l’evaporazione, la terra fertile viene ricoperta di sabbia. Qui si produce la maggior parte della frutta e delle verdure che arrivano sulle tavole di tutta l’Europa e l’11% della popolazione è coinvolta nelle attività agricole. A questa percentuale, già molto alta, va ad aggiungersi quella derivante dall’indotto collegato all’agricoltura, come il confezionamento e il trasporto del prodotto, o tutti i servizi alle coltivazioni. Recentemente, come richiesto dai consumatori del Nord Europa, si è affermata anche la coltivazione biologica e la produzione integrata. Un luogo delle meraviglie, un paradiso, quindi, dove la terra è sì sfruttata in maniera intensiva, ma dà ottimi risultati.

La realtà è che non è soltanto la terra ad essere sfruttata. Il fatto è che per far sì che le serre producano tanto e bene e rapidamente c’è bisogno dell’intervento umano. Il fatto è che questo umano che interviene è costituito dai migranti. Quelli che arrivano dal Nord Africa attraverso Ceuta e Melilla, quelli senza permesso di soggiorno, i clandestini, i rifiutati, quelli che non hanno più niente da perdere, neanche la vita. E qui si fermano perché sono in Europa e pensano di essere salvi. E invece qui trovano un altro inferno, dopo quello sofferto nel viaggio per arrivare in Europa, lunghissimo, che spesso dura anni. Sfruttamento con il metodo del caporalato.

Una situazione scandalosa, portata più volte sulle pagine dei giornali da alcuni media stranieri, ma anche spagnoli – se cercate on line troverete moltissimo materiale -, che sono andati a vedere cosa succede tra le plastiche di El Ejido e di Roquetas de Mar, i due principali centri agricoli della zona. Ciò nonostante, la situazione delle serre di Almeria resta uno scandalo sotto gli occhi dell’Europa. L’ultima inchiesta dello scorso marzo 2018 è stata svolta da “Srf Kassensturz” televisione tedesca che ha incontrato alcuni braccianti delle serre e i rappresentanti sindacali. Il quadro che ne è venuto fuori è agghiacciante: lavoratori senza contratto fisso e senza garanzie e copertura sanitaria, perché privi di documenti,  alloggiati in baracche senza acqua e servizi igienici, che lavorano per un salario minimo giornaliero che dovrebbe essere di 46€, così come concordato dal comparto, e che invece spesso è di 32€ al giorno. Quattro euro l’ora. La Srf ha allora preso contatto con la grande distribuzione tedesca, come Migros o Lidl, principali acquirenti dei prodotti agricoli delle serre di Almeria, informandoli delle condizioni dei braccianti. Le aziende si sono dette sconcertate e hanno fatto richiesta ufficiale ai produttori agricoli di rispetto degli standard minimi salariali e sociali e certificazioni che ne attestino l’osservanza.

Ecco quindi l’anima nera e sporca dell’Europa che si sdegna, avanza richieste, pretende certificazioni, mentre chiude porti e frontiere, alza barriere e poi compra… compra… compra le dolci pesche e le arance e i pomodori di Almeria, prodotti a costo praticamente zero sfruttando i migranti, braccianti sottopagati, costretti al lavoro nelle serre a 47 gradi, per non dover tornare indietro, per poter mandare i soldi a casa, per non dover riattraversare il deserto e rivivere l’inferno di 3 o 5 anni di viaggio.  

E la plastica? Chissà tutta questa plastica…” – “Certo! vediamo se qualcuno parla anche di questo.” Ed eccolo, l’inquinamento ambientale, i pesticidi, la plastica in mare, il capodoglio arenato davanti ad Almeria con 17 chili di plastica nello stomaco, il cambiamento climatico indotto dalle serre che riflettono la luce solare e nella regione la temperatura è scesa di un grado rispetto a 35 anni fa. Ci hanno detto: “Sai? quando c’è vento, e qui spesso c’è vento, quei teli di plastica leggerissima si alzano in volo e sembrano nuvole bianche che il vento strapazza e porta in giro ovunque, anche in mare”.

Poi a un certo punto, tutto quel bianco finisce, perché la Sierra arriva a lambire il Mediterraneo e non c’è più spazio per le coltivazioni. Ci allontaniamo da quel paesaggio artificiale, Mediterranea continua la sua rotta, mentre i nostri occhi restano fissi a guardare.

(…) Sono andato a trovare Falky Mané, che vive in provincia di Almeria da quasi cinque anni, ancora senza permesso di soggiorno. Il paese si chiama Roquetas de Mar, non lontano da El Ejido, di cui si è fatto un gran parlare in occasione delle sommosse di matrice razzista del 2000. E’ una regione interamente coperta dalla plastica, le serre si estendono a perdita d’occhio. (…) Mi hanno raccontato le loro avventure e il loro arrivo qui, dove le mafie continuano a dettare legge. Alcuni sfruttatori affittano i loro documenti ai clandestini che ne hanno bisogno per lavorare. Altri si fanno pagare per dichiarare che sei domiciliato presso di loro per permetterti di richiedere la residenza (…) [Bruno Le Dantec e Mahmoud Traoré – Partire. Un ‘odissea clandestina, 2012]