ingresso alla baia di Capo Sounion

Ingresso alla baia di Capo Sounion

Il Mediterraneo parla delle sue storie. Anche al largo di Capo Sounion, in Grecia, dove Mediterranea ascolta il racconto del naufragio dell’Oria. 

 

Partito da Rodi l’11 febbraio 1944, con un carico di 4200 soldati italiani, prigionieri dell’esercito tedesco dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, l’Oria, piroscafo norvegese sequestrato dal Terzo Reich, affondò incagliandosi davanti all’isola di Patroclo, nell’Egeo di fronte a capo Sounion. I soldati italiani si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò, non si erano riconosciuti nell’esercito nazista. Furono fatti prigionieri e stipati, oltre 4000, su un’imbarcazione di 87 metri, imbarcati per essere condotti al Pireo, a sole 18 miglia, e da lì verso i campi di concentramento.

 

Il Mediterraneo parla e racconta della burrasca che si alzò quella notte davanti all’isola di Patroclo. Il mare investì il piroscafo che navigava con il bordo libero immerso a causa dell’enorme carico umano e mercantile (trasportava anche fusti di olio minerale e gomme d’autocarro) e lo trascinò contro lo scoglio della Medina. L’imbarcazione si spezzò in due tronconi e iniziò ad imbarcare acqua. Per ben due giorni, le condizioni meteo avverse impedirono ai soccorsi di intervenire e dei 4200 soldati italiani ne vennero tratti in salvo soltanto 37.  Insieme a loro, sopravvissero 6 soldati tedeschi, 5 uomini dell’equipaggio norvegese, tra cui il comandante ed il primo ufficiale di macchina, e un greco.

Gli altri morirono. Tutti. Erano 4163. Videro l’acqua salire pian piano, si spostarono in alto, lì dove sacche d’aria permettavano di respirare, tentarono di aprire boccaporti, si tuffarono sott’acqua alla ricerca di squarci nella chiglia. Morirono così, tra 5 e 30 metri di profondità.

Chi si salvò, scrisse e raccontò, in documenti olografi e ufficiali mai diffusi, di quei tragici momenti, di quelle terribili ore in attesa dei soccorsi. Parole inascoltate, la Storia si chiuse sull’Oria e sul suo carico di morte fino al 1955, quando il piroscafo inabissato fu smembrato da palombari greci per ottenerne ferro e i 250 cadaveri trascinanti dalla corrente sulla costa e sepolti in fosse comuni, iniziarono ad essere traslati nel sacrario monumentale dei Caduti d’Oltremare a Bari.

La Storia non parlò, ma il Mediterraneo custodisce e poi svela. Nel 2011, tra le residue lamiere contorte dell’imbarcazione, comparvero anche i fusti d’olio minerale che viaggiavano insieme ai soldati. Su questi erano incisi nomi e cognomi e una data, quella del naufragio. Nelle lunghe terribili ore dopo l’affondamento, nell’attesa della morte che voracemente inghiottiva la vita, quei soldati scrissero il proprio nome sulla stele della loro tomba.

E’ così che sappiamo chi sono, è così che sappiamo chi si salvò e chi invece giace in fondo al mare.

Il Mediterraneo parla e racconta le sue storie. E Mediterranea ascolta. Quelle parole si aggrappano alle sue vele come le spicarole agli abiti nei campi d’estate.

Erano giorni di guerra, per questo accadevano queste tragedie. La guerra… E allora come mai appena una settimana fa, nel canale di Sicilia, un’imbarcazione di 20 metri, con 600 migranti a bordo, nascondeva 40 cadaveri, uno sull’altro, morti asfissiati nella sala macchine, calpestati dai loro compagni di viaggio. Che guerra è, questa? Non è affondata, quella barca, ma l’aria è mancata anche a loro, quell’aria di libertà che hanno cercato al di là del mare, la stessa che è mancata ai soldati italiani che avevano rifiutato il nazismo e la tragica coda del fascismo. Soldati e migranti che forse non sarebbero mai dovuti essere lì, le cui scelte, a monte, prima di ogni conseguenza, dovevano essere diverse. Prima che fosse impossibile non imbarcarsi, loro, o altri, la Storia, avrebbe dovuto aiutarli.

Il 9 Febbraio 2014, nel 70° anniversario del naufragio, al km 60 della strada statale Atene- Sunio, all’altezza dell’isola di Patroclo, è stato svelato il Monumento ai caduti dell’Oria.