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(di Simone Perotti)

“Il Sionismo? Un pensiero e un progetto molto importante! Un Paese appartiene ai suoi cittadini…”. Jeff Halper, attivista, voce israeliana dura, radicale, critica verso la politica del suo Paese, ci tiene a farmi capire immediatamente che lui non è un pazzo che vuole distruggere il proprio Paese, ma un ebreo americano venuto a vivere nel SUO Paese, aderendo a un principio e a un’idea che condivide: il Sionismo. Un fenomeno della fine dell’800, sviluppatosi nel secolo scorso, che ha costituito un autentico sogno per milioni di persone senza patria in ogni angolo del mondo. “Però vede, se tornare in una terra natale, costruire una lingua propria e moderna, cercare di organizzarsi in una nazione civile, sono pensieri e principi sacrosanti, occorre anche tener conto che dire ‘Questa terra è nostra’ unilateralmente, senza ascoltare la voce di altra gente, diversa da te, che vive già da sempre in quella terra, è un errore grave. Israele è nato senza riconoscere la Palestina, anzi, tentando di negare quel riconoscimento”. La sua fama di uomo reciso e duramente critico non tarda dunque a manifestarsi.

Parla con calma, e con ironia, Halper, antropologo e professore universitario. “Noi qui ci siamo venuti come colonizzatori, come conquistatori, come delle specie di cosacchi ebrei. Il problema dell’autodifesa che ha teorizzato il Sionismo vale per noi, per molte ragioni, ma vale anche per il palestinesi allora, o no?! Tenga presente che nel 1908 i primi coloni a venire da queste parti si erano già organizzati con una loro forza armata organizzata. I palestinesi erano agricoltori, pacifici al massimo grado, e un bel giorno si sono visti arrivare in casa russi, ungheresi, polacchi e gente mai vista da ogni parte del mondo, che parlava lingue mai sentite. Sa in quanti erano? 800.000 persone, non 300…”.

Chiedo ad Halper di andare indietro con la memoria. “Prima del Sionismo ebrei e palestinesi qui convivevano pacificamente. Gli ebrei in Palestina erano circa il 2%. Dunque capisce che il progetto andava realizzato con i soldi e con la forza, altrimenti sarebbe stato impossibile. E da quel momento il problema dei palestinesi è diventato l’Hidden Problem, come è poi stato chiamato: ciò di cui non si deve parlare, perché è scomodo farlo. Disarabizzazione, questo è invece il nome di quel che si è fatto qui. Dal cambio dei nomi di ogni cosa all’acquisizione delle terre in ogni modo. E questo si sapeva che avrebbe creato dei problemi, era sia intuibile sia esplicito, perché una bella fetta della comunità ebrea che ragionava sul Sionismo, all’inizio del XX secolo, lo diceva. Erano soprattutto gli ebrei europei dell’Est, che si opponevano alla visione dura e radicale del Sionismo ungherese di Herzl. Basti ricordare Albert Antébi, un ebreo siriano preoccupatissimo, con molti altri, che questo modo di affermare il Sionismo avrebbe generato una cultura anti-sionista. (Antébi scriveva: “Vorrei che realizzassimo Sion con mezzi economici, non politicamente. La Gerusalemme che amo è la Gerusalemme della storia e dello spirito, non la Gerusalemme moderna del potere temporale. Voglio essere un deputato ebreo in un parlamento ottomano, non uno nel tempio ebraico del Monte Moriah. Gli ebrei ottomani dovrebbero avere gli stessi diritti, responsabilità e speranze degli ebrei dell’Inghilterra, della Germania e della Francia. Vorrei creare potenti centri economici ebraici integrati nelle democrazie universali. Non voglio essere oggetto di un’autocrazia giudea.” ndr). Queste voci che mettevano in guardia noi stessi facevano notare che qui c’erano i Palestinesi, che era gente apprezzabile, e che sarebbe stato un errore svolgere il progetto così come stava avanzando. Avevano del tutto ragione, come vediamo oggi”.

Sono molto sorpreso. Un attivista non ha i toni didattici, quasi pedagogici di Halper. Si vede che in lui si fondono la natura studiosa e ricercatrice del professore universitario e i toni accesi e sagaci di chi difende i diritti umani. Nel complesso parlo con un uomo che appare molto saldo culturalmente e molto efficace nelle argomentazioni.

“Purtroppo l’Antico Testamento è un libro sul genocidio, che autorizza tutti a compiere stragi per giuste cause. E questo è servito molto come base per alcune teorie più radicali. E il problema è che da allora si è creata una cultura molto dura, con cui i giovani crescono, che è educazione e anche interiorizzazione di principi inviolabili. insomma, ha vinto un’ala del Sionismo e da quel momento c’è stata un’idea unica, tanto che in Israele, per come siamo arrivati fino ad oggi, non è consentito essere critici. La cosiddetta “base morale” del Sionismo non si deve mettere in discussione, non è consentito. Circa 20 anni fa fu mandata in onda una trasmissione televisiva molto aperta, molto culturale, che coinvolgeva professori universitari, ricercatori, opinionisti, giornalisti, sia ebrei che palestinesi. Dopo tre puntate venne chiusa. E sa cosa disse il potere? ‘La chiudiamo anche se sappiamo che quel che dite è vero. Ma non possiamo permettercelo‘. Come la chiama questa lei? Io la chiamo censura, atteggiamento totalitario”. Parla con calma, Halper, ma le sue parole schioccano come una frusta. “Beh, due giorni fa la radio pubblica è stata chiusa. Parlo di due giorni fa, non di 20 anni fa. Hanno cacciato tutti, centinaia di giornalisti. La riapriranno a breve, così si dice, con tutte nuove assunzioni. Se escludiamo Haaretz, l’unico quotidiano libero che abbiamo, dobbiamo ammettere che si sta realizzando, come per altro c’è sempre stato, un controllo politico sui media. Chi fa di solito queste cose? I dittatori”.

Mi rendo conto che ci sarebbe da stare qui settimane a sentirlo parlare per conoscere cose che non sappiamo o anche solo per chiedergli delucidazioni e approfondimenti. Ma non possiamo. Gli chiedo allora, tirando dritto ad oggi, quali siano le possibili soluzioni a questa situazione: “Sono tre. La prima è quella che ha il consenso dell’80% della gente. E sa come si chiama? Si chiama ‘Nessuna soluzione’. Israele è forte, può gestire questo stato di cose, dunque va bene così”. Accidenti, l’80% è quasi un pensiero unico. “La seconda sarebbe quella dei due Stati, ma nessuno spinge in questa direzione ormai, se non pochi intellettuali e un manipolo di attivisti. La terza è quella di uno Stato unitario, ma con dentro due nazioni, israeliana e palestinese, con una Costituzione che garantisce i diritti di tutti e l’impossibilità di chiunque di prevaricare l’altro. Uno stato democratico insomma – che oggi non c’è, visto quel che ho detto dei media e visto che qui c’è l’apartheid come in Sud Africa – in cui noi saremmo una minoranza rispetto agli arabi, certo, ma saremmo garantiti dalla legge. Ti ricordo che oggi Israele non ha una Costituzione. Anche questo deve farci riflettere”. Chiedo chi spinge verso questa soluzione. Halper scoppia in una risata: “Io!” E poi ci spiega che essendo la più giusta è anche la più difficile. Alcuni palestinesi la capiscono, ma anche loro sono sfiduciati e non si fidano. “Il problema di riconoscere gli ebrei come gruppo etnico i Palestinesi ce l’hanno ancora. Ma il problema maggiore è che penserebbero subito a una trappola, non darebbero un briciolo di credito a questa ipotesi. E io faccio fatica a trovare sponde, interlocutori. In più in Palestina c’è censura come e più di qui, e la gente ha paura. Infine, non sono concreti, mi arrabbio perché non hanno la concretezza di lavorare alle soluzioni. Ecco perché bisogna fare pressione da fuori verso le autorità politiche palestinesi”.

Gli chiedo se questa pressione sulle idee la possano fare, o la stiano facendo, gli intellettuali. “Niente affatto. Non ci sono intellettuali capaci di premere sulle idee. Tanto qui come in Palestina, a dire il vero. Gli intellettuali stanno nelle torri d’avorio, sempre. Nessuno parla forte, perché per nessuno è urgente una soluzione. Tutti pensano che Israele è forte, sa gestire le cose, e una soluzione è così complessa da sembrare impossibile. Dunque, andiamo avanti così. E anche tra i Palestinesi c’è stanchezza, sfiducia, mancanza di tenacia nel perseguire un lavoro che invece è necessario. Per parte israeliana chi è che mi viene in mente? Forse solo Ehud Barak, che definì per primo apartheid quel che stiamo facendo coi Palestinesi (‘Ogni tentativo dello Stato di Israele di mantenere la Cisgiordania e Gaza conduce, necessariamente, a uno Stato non democratico o non ebreo. Perché se i palestinesi votano, allora è uno stato binazionale, e se non votano è uno stato di apartheid’Barak è stato Primo ministro e leader del Labour party, ndr)”. Halper ha sostenuto recentemente che Israele ha intenzione di andare avanti con l’occupazione dei territori, e quando la Knesset a un certo punto dirà basta avverrà l’occupazione militare. Concetti molto duri e pesanti, di cui gli chiedo conto. “Ma guarda, avverrà. È scritto. Gaza non interessa a Israele, dunque diventerà uno Stato autonomo, vedrai. I coloni dal 62% andranno all’85%. Resteranno due o tre piccole enclave di palestinesi come protettorati americani”. Un quadro piuttosto inquietante.

Chiudiamo parlando di tante cose, tra cui la nostra idea di un Mediterraneo Unito. “Bella idea, affascinante. Unico problema quella parola: unito. Io sarei più per un’idea di confederazione. Anzi, di assemblee. Mi piacerebbe che ci fossero tante assemblee nel Mediterraneo, transazionali. Ecco una sorta di Mediterranean Assembly of People. Pensa che bello. Vorrei un’Assemblea per il Medioriente. Un’Assemblea per le Donne. Un’Assemblea per i Bambini. Un’Assemblea per le religioni. E poi un’Assemblea per la gente Libera. Bisogna lavorare su materiali, ricerche, idee…”.