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(di Simone Perotti)

La galleria di Bedri Baykam, si vede subito, non è solo una galleria. C’è movimento, materiali appoggiati, accatastati. Gente che lo attende per un’intervista (“Una televisione sportiva. Mi chiedono del Fenerbache, la mia squadra. Sono un grande tifoso”). E quando poco dopo lo intervistiamo, al secondo piano del piccolo palazzetto, in una stanza col biliardo, un mucchio di quadri dovunque, oggetti, pezzi d’arte e giochi di ogni genere affastellati su ogni superficie e un gatto splendido, pelo lungo, occhi verdi, che si aggira come fosse il re incontrastato di quel luogo, capiamo anche molto bene il perché.

Bedri è uno di quegli uomini nati dotati di chissà quale caratteristica, di chissà quale dono. Ha un lieve sorriso sul volto, che sa modulare in grave serietà o in luce di gioia a seconda del discorso. Deve adorare le donne, perché ce ne sono dipinte, raffigurate dovunque, e la foto con cui partecipa alla mostra al primo piano, sul corpo umano nudo (“Totally Naked”) sembra dimostrarlo ampiamente. Soprattutto, la sua vita deve essere stata fin qui una doppia vita, tripla, quadrupla, visto che ha dipinto il suo primo quadro a due anni, ha presentato la sua prima mostra a sei anni, e da allora non ha fatto che dipingere, creare installazioni, usare ogni moderno strumento integrando l’arte figurativa tradizionale. Intuisco subito che parlare con lui sarà interessante. Lui non si fa pregare, anzi, è un fiume in piena.

“L’artista è in viaggio. E il suo viaggio è individuale, diverso per ogni artista. Ma il ruolo di tutti è stabilire lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Come? in modi del tutto diversi, con interessi diversi, cercando. Ma la diversità è su tutto, deve essere su tutto, ed è trasversale, transnazionale, globale. Domanda e risposta possono variare molto, nell’arte”.

E qui, in Turchia, questo lavoro come viene fatto? Cosa accade qui all’arte? “Qui tutto ciò avviene nel modo peggiore. Qui si vuole evitare la domanda all’arte, dunque la sua risposta. Qui non si ama che la gente faccia domande, né che SI faccia domande. Non amano la gente indipendente qui, adorano i pupazzi, quelli che eseguono e non pensano. E gli artisti un po’ se ne preoccupano, cercano di stare nella squadra giusta a volte. Grazie al cielo non solo…”.

Bedri è andato dritto al punto: la politica del Paese. Mi spiega che ci sono giornalisti in carcere, così come scrittori. Io però, che sono giorni che studio e incontro persone, voglio sfruttare questa sua mente brillante e questa sua apertura e cerco di rintuzzarlo, perché giornalisti e scrittori in galera, il reato d’opinione, tutte queste cose qui non sono nate con Erdogan, ci sono sempre state. Lui non si scompone: “E’ vero, alcune cose sì. Ma qui hanno chiuso sette anni fa il centro culturale Atatürk, proprio qui dietro, in Taksim. L’hanno chiuso senza una sola plausibile ragione. Era un monumento, un polmone, una cosa dal valore intrinseco e simbolico. Abbiamo protestato, fatto casino, ma niente. Vogliono distruggerlo, e ora ci dormono i poliziotti in borghese che, come avrai visto, sono dovunque nella città, soprattutto qui a Beyoglu. Questo governo taglia di continuo ogni finanziamento all’arte e alla cultura, mai vista una cosa così. Erdogan doveva portare la Turchia in Europa e invece uccide la cultura, toglie fondi ai teatri, non investe in alcuna iniziativa che abbia a che fare con la cultura moderna e contemporanea. Sai che noi non abbiamo neanche un museo pubblico di moderna e contemporanea? Qui aprono moschee, ma zero centri d’arte. A te sembra che possiamo essere una capitale libera, avanzata, efficiente? Mentre venivo qui ho fatto un tweet per rispondere al Primo Ministro che si lamenta che la discussione con l’EU non procede. Gli ho scritto: “vuoi aprire la discussione? E i diritti civili, e le libertà? Senza quelle che discussione vuoi fare?”

Accidenti, un vero torrente in piena Bedri Baykam. “L’arte fa paura, questa è la verità. Dunque tu mi domandavi qual è il ruolo dell’artista e dell’arte. Difenderci, ecco qual è il nostro ruolo. Difenderci dall’aggressione, dall’attacco che riceviamo. Non ci vuoi sovvenzionare, non vuoi dare soldi pubblici per sostenere l’arte? Va bene, ma almeno non metterci nell’ombra, non ci emarginare. Il fatto è che, come è sempre avvenuto, qui l’arte è politica”. Diciamo che posso risparmiarmi la domanda sul ruolo politico dell’intellettuale. Con Bedri non serve.

“Se chiudessero metà delle moschee sarebbe meno grave e meno odioso di aver chiuso il centro culturale Ataturk. Per questo abbiamo protestato, fatto una “Artist Initiative”, abbiamo passeggiato in massa per Istiklal Caddesi. Questo almeno ha avuto l’effetto di rendere tutti consapevoli, soprattutto gli artisti. Come anche è stato utile che mi abbiano quasi ammazzato…”. Io lo guardo, forse non ho capito quel che ha detto. In realtà Bedri parla un inglese perfetto, dunque mi sa che invece ho capito. E infatti lui con tutta la naturalezza del mondo mi spiega che una sera tornava a casa dopo una presentazione e lo hanno seguito, gli hanno offerto un passaggio, lui ha rifiutato (“meno male, altrimenti da dietro mi avrebbero sgozzato facilmente”) e allora lo hanno accoltellato per strada con un coltello (“noi lo chiamiamo Yatagan”, una specie di sciabola ricurva lunga cinquanta centimetri, ndr), lo hanno mezzo squartato, mi fa dei lunghi segni sul petto e sul fianco, e solo per miracolo non è morto (“e per la bravura dei medici”). “E’ stato un fanatico islamista, che ora è in carcere per ventiquattro anni. Ma non possono farmi paura. Non possono farne a me al concetto di laicità e secolarismo, contro la mia libertà non possono fare niente. Non ho paura”. 

Quando due artisti si parlano e uno dei due è stato accoltellato per il suo ruolo politico, il dialogo cambia. Io ascolto, lui non si ferma. Con che atteggiamento dovrei fargli domande? Scrivo ogni cosa che dice.

“Li stavo aspettando da almeno quindici anni. Non mi sono stupito. Per tanti, la libertà non è una priorità. E comunque dagli anni Novanta a oggi dieci miei amici giornalisti sono stati uccisi, dunque l’aria che tira è questa”. Non posso non pensare che Erdogan è salito al potere nel 2004, ma certamente l’aria tirava forte già prima. Chissà. 

Gli artisti si dividono in un 5-10% di cortigiani, che stanno benissimo accanto a qualunque potere. Un 30% circa di disimpegnati, che non si occupano di nulla e fanno arte d’intrattenimento. E poi un 60% circa di artisti impegnati, di cui la metà almeno è attiva, prende posizioni, rischia, non piega la testa. Qui, questo centro, questa galleria, è totalmente indipendente. Facciamo mostre su Gezi Park, sul movimento di protesta, ma ovviamente nessuno ci sponsorizza. L’impresa qualcosa fa, ed è comunque un bene che lo faccia, perché fa circolare denaro. Certo, quando sei sponsorizzato non puoi fare una mostra su Gezi, non te la fanno fare. Chi è sponsorizzato non è libero. Bene fate voi a non farvi dare soldi dalle imprese. Così potete fare questa intervista a me senza che nessuno vi dica niente”.

Con un uomo così si può parlare ad angolo aperto. Gli chiedo delle influenze dell’arte occidentale e lui mi blocca: “Non esiste alcuna arte occidentale. Ho scritto un libro “Monkeys right to paint” in cui dimostro opere alla mano che l’arte occidentale deve l’80% della sua creatività all’arte africana e orientale. Basta pensare all’arte originaria dello Zaire e Paul Klee, o anche Calder, l’arte della Nuova Guinea e Henry Moore, agli studi di Gauguin, all’influenza dell’arte nigeriana su Gaudier Brzeska, di quella tanzaniana su Giacometti, della calligrafia giapponese su Motherwell o su Tapies. Quale arte occidentale? Se io faccio un quadro in un certo modo mi dicono che sembro scimmiottare Basquiat o chi altri, ma se lui si ispirava a tratti anatolici o mediorientali, sto solo facendo un esempio, allora chi si ispira a chi? Ho dipinto un quadro, tanti anni fa, bianco con una scritta: “This has been done before”. Diciamo che era piuttosto chiaro l’intento provocatorio. Io sto facendo un lavoro artistico e l’arte è tutta contaminata. Come quando voi parlate di Mediterraneo. Ho scritto un manifesto su questo, l’ho distribuito davanti al Museo d’Arte Moderna di San Francisco, poi a Parigi…”. Ogni tanto cerco d’interromperlo solo per non volare troppo sui concetti, perché fosse per lui mi terrebbe avvinto a ogni parola, soprattutto quando cambia argomento. Poi però lui riprende inesorabile. “Ognuno fa la sua piramide artistica, ecco perché questa galleria si chiama Piramid. Un po’ la stessa cosa per quanto riguarda il Mediterraneo. La tua idea del Mediterraneo mi affascina moltissimo. Serve un laboratorio, sì. Ma è un laboratorio che deve fare la gente, semmai indirizzato, guidato, ispirato da artisti indipendenti. Servono panel di discussione, festival. A Guadalajara, al congresso mondiale dell’arte, di cui sono presidente, quattro anni fa ho proposto di istituire la Giornata Mondiale dell’Arte, ovviamente il 15 aprile, cioè l’anno di nascita di Leonardo Da Vinci, il più grande, che vedeva tutto come multidisciplinare, integrato, contaminato. Così è l’arte, come il Mediterraneo, che è sovrastruttura stratificata di emozioni: natura, ulivi, amicizia, morbidezza, gente, sole, romanticismo, poesia, comunicazione, cucina naturale, profumo della vita, condivisione di giochi e cultura, diversità e omogeneità insieme…”.

E da questo punto di vista la Turchia? “Mah… stiamo diventando sempre meno mediterranei, sempre più arabi, sempre meno aperti, governati secondo regole opposte a queste, e infatti tutta la costa da Çanakkale ad Antalya almeno non vota per lui, tutti socialdemocratici. Molte leggi recenti stanno arabizzando il Paese. Quella cultura non ama la bellezza, le minigonne, distrugge foreste, cementifica, costruisce autostrade immense, la natura stessa del Mediterraneo è sotto attacco. La religione che si sparge nella politica è il pericolo maggiore. Ad esempio, dopo Charlie Hebdo non ho visto folle oceaniche che si scagliavano contro la violenza islamista. Ho visto una grande manifestazione che diceva “noi islamici siamo diversi, non siamo come quei folli, ma…”. Ecco, quel ma ci ucciderà”. Da un uomo che è stato quasi ucciso da un folle, quest’ultima frase suona come un avvertimento piuttosto serio. Ci abbracciamo molte volte, dopo aver visto molte sue opere, aver ancora parlato di arte, cultura. Andiamo via pieni di emozione. Un altro intellettuale di quella comunità internazionale che, come diceva Murat Belge, può salvarci dall’omologazione e dai guasti tragici del potere.