15 Lepanto

Grecia, Navpaktos – Vista dal mare

Lepanto. Nome medievale dell’odierna cittadina greca di Naupatto, in greco Naúpaktos, nel nomós di Etolia e Acarnania, posta sulla costa settentrionale dello stretto che separa il Golfo di Corinto da quello di Patrasso. Nel 1407 venne conquistata dai Veneziani, nel 1499 fu conquistata dai Turchi, poi riconquistata dai Veneziani e poi di nuovo dai Turchi e rimase a questi fino al 1828, anno in cui fu ripresa di nuovo e definitivamente dai Greci. Conserva le mura veneziane e la cittadella che, con il piccolo porto difeso da due torri, le conferiscono un aspetto pittoresco.

Mediterranea è stata qui il 16 maggio 2013 e altre volte ancora nel mese di maggio navigando tra il golfo di Patrasso e il Golfo di Corinto proprio in quelle acque dove si svolse la famosa battaglia che prende il nome proprio da questa città: La Battaglia di Lepanto.

La battaglia di Lepanto è anche detta battaglia delle Echinee o delle Curzolari in quanto le Curzolari, gruppetto di 7 piccole isole chiamate nell’antichità Echinadi e di cui Oxia è la più meridionale, poste di fronte alla costa dell’Acarnania, al delta dell’Acheloo e all’ingresso del golfo di Patrasso, furono il vero teatro della battaglia. Ci troviamo a circa 40 miglia da Navpaktos.

Miguel de Cervantes, l’autore del “Don Chisciotte” che in quella battaglia vi partecipò perdendo la mano sinistra, scrive: “… due galere s’investono per le prue nel mezzo dello spazioso mare: esse sono incastrate e avvinghiate, e al soldato non rimane altro spazio che quello che gli concedono due piedi di tavolato dello sperone; e con tutto ciò, pur vedendo che… alla prima disattenzione nel mettere i piedi andrebbe a visitare il profondo seno di Nettuno, con tutto ciò, con intrepido cuore, spinto dall’onore che lo pungola, si mette a far da bersaglio a tanta fucileria, e cerca di passare per un così angusto spazio alla nave nemica. E ciò che fa più meraviglia è che non appena uno è caduto da dove non potrà più rialzarsi sino alla fine del mondo, ecco che un altro immediatamente ne occupa il posto; e se anche questo cade nel mare che l’aspetta come un nemico, prende posto un altro, e poi un altro, senza dar tempo al tempo che muoiano: che è il più gran valore che possa riscontrarsi fra tutti quanti gli episodi di guerra”.

A quasi quattro secoli e mezzo di distanza, Lepanto continua a mantenere un significato particolare: la vittoria della Lega Santa, divenne la pietra miliare sulla quale si sarebbe legittimata l’egemonia occidentale e di cui si nutrirà la volontà di riscatto del mondo islamico nei secoli a venire. E se nel settecento Voltaire poté ironizzare sulle scarse conseguenze politiche di un così grande scontro militare, questo avvenne perché, dopo la battaglia, tornarono a galla le divisioni interne alla Lega Santa (presto sciolta) e gli scontri tra Principi europei. Una lezione, che, ancora oggi, torna utile ripetere.

“Il passato non è mai morto, anzi … non è neppure passato”. (William Faulkner)

 

La Battaglia di Lepanto

Siamo nel periodo dell’espansionismo navale ottomano del sultano Selim II, successore di Solimano il Magnifico, quello che si manifesta nel luglio del 1570 con l’investimento dell’isola veneziana di Cipro, la preziosa isola dello zucchero, del sale e del cotone, come direbbe il Braudel, la prima della lunga catena di basi navali veneziane che, all’epoca, si dipanavano dall’Egeo verso l’Adriatico. Dopo trentadue anni di pace almeno formale, la psicosi del pericolo turco torna ad allarmare il Mediterraneo e l’Occidente cristiano tanto più che, con l’ossessione del mito dell’invincibilità ottomana, si riteneva in fondo che “una bella fuga valesse più di un buon combattimento”.

Una volta risultate vane le sottili arti diplomatiche, a Venezia non rimaneva dunque che battersi, pur nella consapevolezza di non essere più in grado di affrontare da sola l’attacco. Di qui l’appello al Pontefice, il domenicano Pio V che, al pari dei suoi predecessori, nello spirito mai sopito di una inesausta crociata contro gli infedeli, si muove subito in difesa di quelli che intende globalmente come interessi dell’intera cristianità e quindi, vincendo sia le resistenze spagnole che le diffidenze veneziane, dopo una lunga e sfibrante trattativa il 20 maggio 1571 si arriva alla proclamazione della Santa Lega, riuscendo così a schierare l’Occidente contro il Turco e inserire la guerra locale in una guerra generale per il controllo del Mediterraneo.

Alla fine di agosto del 1571 la grande Armata cristiana, alla fonda a Messina, sotto la guida di don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II, re di Spagna, di cui faceva le veci, fu raggiunta dalla notizia dell’invasione turca di Nicosia e Famagosta. Fu il segnale di guerra. La Flotta della Lega mosse dalla Città del Faro e, pur disturbata da nebbia e vento forte, approdò a Viscando ove apprese della orrenda fine inflitta dai Turchi al Governatore Marcantonio Bragadin (era stato scorticato vivo e la sua pelle, conciata e riempita di paglia, era stata innalzata sulla sua imbarcazione) ed alla sua guarnigione, cui era invece stata garantita la sicurezza a condizione che abbandonassero Cipro. La circostanza sollevò un fremito d’orrore in tutto l’Occidente e il convoglio alleato, contro il maltempo, preso il mare a Cefalonia e deciso a regolare i conti alla Flotta della Sublime Porta,raggiunse il 6 ottobre il golfo di Patrasso.

Il 7 ottobre del 1571, in anticipo sull’aurora, don Giovanni ordinò alla flotta di schierarsi deciso a dar battaglia. La domenica del 7 ottobre, intorno a mezzogiorno, le parti furono a tiro: la Marina crociata e quella turca si fronteggiarono avanti all’imboccatura del golfo di Corinto.

Lo schieramento ottomano aveva Alì Pascià al centro, con l’Ammiraglia difesa da novantaquattro galere; Mehmed Pascià (Mehemet Shoraq) con cinquanta galere, sul lato destro; Ulugh Alì con sessantacinque galere, sul fianco sinistro. In fondo, era allineata la retroguardia con dieci galee e sessanta navi minori, controllate da Murad Dragut.

La formazione cristiana in assetto serrato aveva alla testa il ventiseienne don Giovanni d’Austria che, con accanto Francesco Maria II della Rovere ed oltre duemila volontari provenienti dall’Urbinate, si posizionò a destra Marcantonio Colonna e a sinistra Sebastiano Venier, affidandola protezione dei fianchi a Giovanni Andrea Doria e ad Agostino Barbarigo. Al centro espose due galeazze venete e ventotto galee, quindici fra spagnole e partenopee, otto genovesi e sette papali, tre maltesi ed una sabauda. In definitiva: la Real galea spagnola era accompagnata dalla Capitana del settantacinquenne Venier, dalla Capitana di Sua Santità condotta dal trentaseienne Ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna, dalla Capitana del genovese Ettore Spinola, dalla Capitana del piemontese Andrea Provana di Leinì e dall’Ammiraglia Vittoria di Pietro Giustiniani, Gran Priore dei Cavalieri di Malta. Il Corno sinistro si componeva, così, di quaranta galee e due galeazze venete, dieci galee spagnole e napoletane, due papali e una genovese, tutte rette dall’energico polso dell’Ammiraglio Agostino Barbarigo. Il Corno destro era invece dotato di venticinque galee e due galeazze veneziane, sedici galee genovesi, otto galee spagnole e siciliane, due sabaude e due pontificie, tutte guidate da Gianandrea Doria. Le spalle della formazione erano difese dalle trenta galee di Alvaro de Bazan di santa Cruz e la Prima Linea, controllata da Juan de Cardona, disponeva di otto galee: quattro siciliane e quattro venete. L’Armata cristiana, in sintesi, non si schierò in formazione a semicerchio ma in linea retta e distinta in tre squadre: al centro l’Azzurra, con don Giovanni, Colonna e Venier; a sinistra la Gialla, con Barbarigo; a destra la Verde con Giannandrea Doria, ciascuna preceduta da due galeazze veneziane: autentiche fortezze galleggianti utilizzate per contenere i primi affondi e scomporre lo schieramento nemico. Come riserva, in seconda linea fu alloggiata la squadra Bianca, col Marchese di santa Cruz. Don Giovanni portò avanti ad ogni corno due formidabili galeazze mascherate da navi da carico ed armate di Archibugieri e ne assegnò il controllo agli Ammiragli Antonio e Ambrogio Bragadin, desiderosi di vendicare il brutale assassinio del fratello Marcantonio.

Per contro, i Turchi adottarono uno spiegamento a mezzaluna, con la concavità orientata verso la Flotta occidentale e analogamente ripartita in tre gruppi: al centro Muezzinzade Alì; a destraMehmed Pascià e a sinistra Ulugh Alì, Signore di Algeri, diretta controparte di Doria. Capeggiati dall’Ammiraglio Mehmed Pascià detto Maometto Scirocco, schierarono sull’ala destra cinquantacinque galee; al centro allocarono novanta galee dominate dalla Ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde riportante ventottomila e novecento volte a caratteri d’oro il nome di Allah; sull’ala sinistra esibirono altre novanta galee, agli ordini di Ulugh Alì; in retrovia assettarono dieci galee e sessanta natanti minori, guidati da Murad Dragut. La formazione a mezzaluna adottata dagli ottomani in teoria era ideale per gli accerchiamenti e i turchi erano appunto intenzionati a sfruttare la loro superiorità numerica. D’altra parte gli ottomani rimasero perplessi della funzione delle galeazze che scambiarono per semplici navi da trasporto. Inoltre le spie turche avevano riferito al loro comandante che esse erano dotate di appena 3 pezzi d-artiglieria l’una. Nonostante le contrastanti informazioni sull’effettivo numero di soldati in campo, gli storici ritengono che le due flotte avessero all’incirca lo stesso numero di combattenti, anche se tra gli ottomani i veterani esperti erano più numerosi. Entrambi le parti miravano a stemperare la forza d’urto dei nemici con l’artiglieria prima che le flotte entrassero in contatto. Poiché gli ottomani si affidavano soprattutto al combattimento corpo a corpo preferivano caricare l’artiglieria con palle di pietra che nel contatto si rompevano in schegge che ferivano tutti gli uomini nelle vicinanze. Per questo motivo gli ottomani sceglievano di azionare i cannoni a distanza ravvicinata in una singola scarica, lasciando le truppe da arrembaggio finissero il nemico, tramortito e decimato. La tattica occidentale invece mirava a danneggiare le imbarcazioni quanto le ciurme, impiegando diversi tipi di proiettili sparati in varie fasi della battaglia.

Verso le 11 del mattino le flotte erano in posizione e la flotta ottomana inizio l’avanzata. A mezzogiorno le galee turche si trovavano a circa un miglio e mezzo dalla linea cristiana e,continuando a remare, entrarono nel raggio di tiro delle galeazze. L’effetto del fuoco delle galeazze sugli ottomani fu devastante. L’ultima cosa che molti soldati videro furono bagliori e fumo, e molti caddero ancora prima di udire il tuono dei cannoni. I proiettili trovarono facili obiettivi nella fitta foresta nemica, sfracellando insieme legno e carne. Le urla provenienti dalle galee ottomane si fecero assordanti per i lamenti di dolore e le urla di paura.

Il comandante mussulmano decise quindi di ritirarsi con le sue navi nella vicina città di Lepanto, sotto il controllo ottomano. La battaglia delle isole Curzolari di fatto terminò poiché alla vista del nemico in fuga i soldati smisero di combattere per saccheggiare i bottini delle navi catturate. Dopo circa cinque ore di combattimenti la battaglia era finita e la testimonianza della ferocia dello scontro si riscontrava nel mare pieno di corpi e relitti.

La notizia della vittoria cristiana presto raggiunse tutte le capitali europee. La vittoria ebbe un grandissimo impatto simbolico sulla mente e sul cuore di tutti i cristiani, consapevoli ora che la minaccia espansionistica turca potesse essere fermata.

La sconfitta di Lepanto significò per i musulmani la fine della potenza e delle ambizioni marittime.

Anche se la loro forza navale non fu definitivamente distrutta, il numero di navi raccolte per questa battaglia non venne più uguagliato; nonostante continuassero a esercitare qualche influenza nel Mediterraneo orientale e i pirati barbareschi rimanessero attivi fino al XIX secolo, i musulmani non furono più in grado di sfidare la supremazia marittima europea, Uluch Ali si trovò a comandare una flotta turca riorganizzata, ma rifiutò due volte di ingaggiare battaglia con altre flotte della Lega. Inoltre più che il numero delle navi, la flotta ottomana ne risentì in qualità. Infatti i migliori marinaie soldati della marina ottomano furono uccisi e la stessa flotta che ritornò sopra le 200 unita in appena sei mesi era di qualità decisamente scadente.

La flotta cristiana, di contro, non riuscì a liberare Cipro che rimase nelle mani dei Turchi.

Lepanto fu una vittoria morale, oltre che militare.

Tuttavia, il potenziale politico che avrebbe potuto scaturirne non venne mai fuori: la Lega Santa ebbe vita breve, e la battaglia di Lepanto fu l’unico avvenimento brillante che la caratterizzò.

Dal punto di vista della guerra navale, Lepanto segnò un punto di svolta.

La galea dominava i mari già da prima di Cristo, ma i suoi giorni erano ormai contati.

Le navi a vela comparse in questa battaglia rappresentavano il futuro: rispetto alle galee, si dimostravano più veloci sulla lunga distanza (anche se lo erano meno su tratti brevi), potevano portare un maggior numero di cannoni e tenevano molto meglio il mare.

Lepanto costituì anche l’ultima occasione importante in cui una battaglia navale si svolse con soldati che combattevano in alto mare come se si trovassero sulla terraferma; 15 anni più tardi, infatti, lo scontro tra la   Royal Navy inglese e l’Armada spagnola vide le spade e i rematori sostituiti da cannoni e vele.

(Fonte : Tesina di Giorgio Morini alunno del Liceo P. Carcano di Como vincitore di un concorso sulla storia militare promosso nel 2012 dal Cestudec)