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(di Simone Perotti)

Dopo giorni di tentativi di incontro a Nablus, mancati anche per nostra impossibilità, incontro via Skype Abdullah Kharoub, che si collega da uno dei quattro campi profughi palestinesi, il più grande, il Balata Camp. È il responsabile delle relazioni pubbliche del campo, a Nablus, in Cisgiordania. Avrà trentacinque anni, faccetta rotonda, simpatica, considerato dove si trova anche disponibile, voce regolare, tono calmo nonostante ciò di cui mi racconta. “Questo campo c’è da decine di anni, ci vivono 30.000 persone, alcuni di quelli arrivati per primi sono morti, nuovi profughi sono nati qui, alcuni sono nati e morti senza mai aver potuto mettere piede fuori da qui, altri rischiano di morire da anziani nella stessa condizione, anche se spero proprio di no…”. Abdullah mi parla da un ufficio, intorno sento un gran rumore, gente che entra ed esce, parla, discute, lui spesso fa cenni con gli occhi, un saluto, oppure risponde al telefono, si scusa con me, o stringe una mano che fa irruzione enorme nel video da cui mi arriva un’atmosfera da prime retrovie del fronte, da emergenza straordinaria, solo che invece è tutto fuorché straordinaria. 

Al Balata Camp, questo è il problema, è un qualunque martedì dal 1952, cioè dalla sua fondazione. Dentro ci vivono i rifugiati registrati dalle autorità israeliane. “Un gran numero di palestinesi che nel 1948 erano fuori dalla Palestina non sono stati registrati e dunque non sono mai potuti rientrare nella loro patria. I registrati invece erano circa 60.000 nel 1952, ora siamo oltre 5 milioni, in territori che sono pure stati occupati militarmente nel ’67, insieme a Gerusalemme, e dunque sono ancora inferiori. Abbiamo qualunque genere di problema qui: sovrappopolazione, problemi di infrastrutture e logistici, di servizi, sanitari, viviamo in condizioni molto difficili”. Mi spiega che questa è l’Area A, cioè quella sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, ma che gli israeliani ci entrano lo stesso per fare controlli o operazioni di polizia. “Vengono, spesso di notte, non siamo al sicuro se siamo fuori di casa qui a mezzanotte, per fare un esempio. Qui i militari israeliani entrano quando vogliono, buttano giù le porte nella notte, arrestano, frugano, cercano sempre qualcosa…”. La descrizione mi colpisce per due ragioni: la prima è che contrariamente a quanto sapevo, lui dice serenamente “Israele” e “israeliani”, e poco avanti dirà spesso “i due Stati” come qualcosa di acquisito; la seconda è che fa descrizioni forti, tragiche, con una voce abbastanza calma, partecipe ma senza lamento o iperboli nel tono. “I rifugiati palestinesi sono dovunque, mica soltanto qui. Dalla Siria alla Giordania, all’Egitto. Quelli del ’67 sono divisi in due: da Gaza sono andati in Egitto; dai territori occupati, in Giordania.

Gli chiedo che relazioni ci sono con gli israeliani, formali e informali. “Nessuna, direi. A parte l’essere occupati, questa è una occupazione illegale e violenta, non lo diciamo noi, è un fatto, lo sanno tutti. Le violenze, per altro, rispetto a dieci anni fa sono molto diminuite, grazie al cielo. La situazione da quel punto di vista è migliorata, ma è sempre tragica”. Gli riferisco che Jeff Halper, Grossman e altri hanno lamentato con me la mancanza di interlocutori tra i palestinesi, come dire che pure chi è critico verso Israele lamenta una sorta di poca proattività o di inerzia, per parte palestinese, nel lavorare a una soluzione comune, nel dialogare. “I contatti diretti tra noi e loro sono molto difficili, anche incontrarsi fisicamente o perfino solo via email lo è. Sui media finisce solo parte della faccenda, riferire lì entrambi i pensieri non è cosa semplice, anche perché poi spesso ne emerge una realtà manipolata. Ci sono delle ONG, e quindi dentro qualche israeliano ci lavora, e qualche contatto c’è, ma poca cosa. Ci sono progetti umanitari condotti anche da israeliani, ma pochi…”. La sua contabilità emerge sterile, poco spazio alla speranza di quel “vedersi l’un l’altro” di cui mi ha parlato Grossman. Chiedo ad Abdullah Kharoub se la gente è soddisfatta dei suoi leader, o se in effetti forse qualcosa di più si potrebbe fare anche da parte palestinese. “Per nulla soddisfatta della propria leadership politica. Non posso parlare a nome di tutti, ma a nome mio sì e anche a nome di molti che sento intorno a me. Posso dirlo senza alcun disagio o ritrosia, di fronte a chiunque, ai giornali, a te, a tutti: la politica palestinese è insoddisfacente, qui c’è frustrazione e dolore. Serve pace, sicurezza, i leader palestinesi devono negoziare, nient’altro, e rapidamente, perché la gente ha bisogno e diritto di migliorare concretamente la propria condizione di vita. Basta coi titoli, con le affermazioni a effetto, servono azioni che abbiano impatto immediato e concreto sulla vita quotidiana della gente”. Parole nette e forti, un’autocritica senza mezzi termini. Cerco di allargare al resto dei Paesi arabi, la risposta è simile: “Noi veniamo percepiti con un territorio arabo, dunque a sentire le dichiarazioni a tutti i Paesi arabi interessa la questione palestinese e tutti la supportano. Ma non è affatto così, anzi, è esattamente il contrario. Moltissimi paesi arabi dialogano con Israele, hanno rapporti commerciali, economici, finanziari con Tel-Aviv, ma verso di noi nulla. Ci hanno lasciato del tutto soli”. Ancora una volta, la gravità delle affermazioni di Abdullah viene amplificata dal suo tono privo di eccessi, garbato perfino. “Ci aiuta più l’Europa di loro. In Europa sentiamo molto sostegno da quello economico a quello politico, mediatico. Ovviamente, non basta mai, servirebbero posizioni forti e chiare, e questo avrebbe molto impatto”.

Abdullah Kharoub saluta, risponde a una telefonata, scrive qualcosa su un foglietto e lo consegna a qualcuno dietro la telecamera, poi si scusa e torna da me. Gli domando quale delle possibili soluzioni lui ritenga perseguibile, e anche la gente intorno a lui: cittadinanza e basta, due Stati distinti, uno stato bi-nazionale… “I due Stati non sono più possibili, direi che quella soluzione è tramontata. L’unica è uno stato democratico, bi-nazionale, con una Costituzione, che non sia né cristiano, né giudaico, né islamico, in cui ci sia pace e vita per tutti”. Gli riferisco che sia israeliani attivi a sostegno della causa palestinese, sia grandi intellettuali, ci hanno confessato che questa ipotesi sembra impercorribile perché tutti comprendono che i palestinesi non si fiderebbero degli israeliani. Io aggiungo che credo questo valga anche per gli israeliani, che mai si fiderebbero di loro. Abdullah, per la prima e unica volta nell’intervista, sembra appena nervoso: “Beh, direi che la questione della fiducia è fin troppo ovvia, ma con una bella differenza! Io mica sono a Tel-Aviv a sfondare porte di notte, rapire la gente senza un mandato, picchiarla, segregarla senza alcuna autorità! Gli israeliani fanno questo, e dopo aver occupato anche illegalmente e militarmente la Palestina nel ’67. Questo genera paura dovunque, e quando hai paura poi finisce che reagisci pure. Comunque loro sfondano i muri delle nostre case con gli arieti, mica noi, dunque perché non devono fidarsi di noi? A me qualcuno mi conosce, mi ha mai incontrato, sa chi sono, cosa penso, come ragiono, come mi comporto? E allora perché dovrebbero avere poca fiducia in me? Non mi conoscono mica!”. Torna nelle orecchie la questione posta da Grossman, quella della necessità per entrambi di entrare in contatto, di vedersi, di scoprirsi meglio o peggio di quello che si pensa, ma di farlo direttamente.

“Ha ragione Grossman, non c’è alcuna garanzia che l’Intifada non ricominci. Il primo indicatore è la gente in carcere, che aumenta, vive in condizioni sempre peggiori. Lo sciopero dei quasi duemila detenuti palestinesi è un bomba che può esplodere, perché va avanti da 29 giorni, molti, alle ultime informazioni che ho avuto, stanno male, sono in condizioni fisiche serie. Se ne morisse qualcuno cosa accadrebbe? Siamo all’allarme rosso”. Non c’è modo di proseguire a chiacchierare, ci promettiamo di tornare a parlare in futuro, ma ora Abdullah deve andare, fagocitato dalle emergenze, che per lui, per tutti in Palestina, purtroppo, sono la normalità.